Wednesday, March 08, 2006

Scheletri nell'armadio

A volte ti dimentichi di cose che hai fatto/scritto.
Oggi facevo pulizia qua e la ed ho ritrovato un mio vecchio racconto, molto breve in verità.
Risale al periodo Fight Club.
Che dire d'altro se non enjoy?

Jack

Se non avessi la certezza matematica che questo non è un sogno non crederei a quello che sto per fare.
Mi chiamo Jack Warrol, 29 anni 7 mesi e 15 giorni.
Per tutta la vita sono stato un verme smidollato, pecora tra le pecore, non mi sono mai fatto notare, ero la classica persona che a scuola dava e riceveva il minimo, nessuna aspirazione a qualche cosa di meglio, nessuna integrazione sociale, sono il fantasma di me stesso, e, ne sono sicuro, la gente fino ad oggi non si curava della mia presenza, ma da domani tutti parleranno del vecchio Jack e di come se ne è andato con il botto.

Ora lo sento, il freddo metallo premuto con matematica precisione e sicurezza contro la mia tempia destra.
Cain è qui con me, dorme beato, ancora sento le sue parole rimbombare nella mia testa “Lo scopo della vita non è forse morire?”. E’ steso sul divano si è lasciato cadere a peso morto ed ha un sorriso ebete stampato sul volto, vecchio diavolo…
Un ultima occhiata alla foto mia foto del giorno del diploma, poi chiudo gli occhi e

...

Come ogni mattina la mia giornata inizia alle 7.45, rovistando tra le mie quattro cose presi una camicia bianca ed un golf grigio asfalto, ho la testa pesante, l’unica cosa che può tirarmi su è una buona dose di caffeina. Trangugio il caffè nero, amaro e caldo, ormai non vi presto più attenzione, né al sapore né all’elevata temperatura. Prendo la borsa e esco di casa, pronto per andare a lavorare.
Sono un tutt’uno con l’ambiente circostante, un camaleonte urbano, la mia figura eretta di esemplare maschio di Homo Sapiens si fonde tra l’asfalto e il cielo plumbeo. Mi dirigo verso la metropolitana, sono lì solo come un cane sulla banchina, guardo i gruppetti di studenti e di altri impiegati parlare, ridere e scherzare; di sottofondo la filodiffusione della metropolitana trasmette “Stairway to Heaven” dei Led Zeppelin. In quel momento mi rendo conto di una cosa che in 29 anni di vita il sottoscritto non ha mai notato:

sono S-O-L-O !

Arrivo in ufficio in orario e mi sistemo nel mio box, sulla scrivania trovo ammonticchiate un numero di pratiche da sbrigare, non sono tutte mie in verità, da anni ormai i colleghi mi fanno “dono” di parte del loro lavoro, ed io faccio spallucce e lavoravo anche per loro, non facevo storie perché non volevo litigi e discussioni, ma accollarmi il loro lavoro non mi rende certo felice.

Le 17.30, la fine di una giornata lavorativa. E' buio e come se non bastasse si mitte a piovere, e sono senza ombrello.
La pioggia nella mia miserabile esistenza ha sempre rappresentato una sorta di leit-motiv: pioveva quando la mia ragazza mi lasciò (non sei tu… sono io), pioveva quando il mio vecchio se ne andò di casa, pioveva quando a mia madre (pace all’anima sua) diagnosticarono un cancro e pioveva quella sera, la sera in cui la mia vita cambiò.

Stavo sotto un cornicione sulla pensilina, stranamente deserta data l’ora, una leggera foschia si alzava dal terreno e tutto sembra far parte di una scena onirica, quasi surreale, quando lo vedo.
Passo sicuro, quasi arrogante nell’incedere, spolverino di pelle e totalmente vestito di nero, Cain faceva la sua trionfale entrata in scena.
“Hai una sigaretta?” mi fa lui, io tartaglio un timido no, avverto il suo forte ascendente e ne sono allo stesso tempo attratto e turbato.
“Che tempo da lupi, non è vero Mr. Jack Warrol?”. Un brivido mi percorre la schiena, come fa a conoscere il mio nome?
Se prima ero turbato, ora sono teso come una corda di violino, faccio per parlare, gesticolo freneticamente, “Ma..Ma lei..Ma..” non terminai mai quella frase perché l’uomo in nero indica il mio badge di riconoscimento dell’ufficio. Imbarazzatissimo provvedo a rimuoverlo, lui sembra molto divertito ed io, invece, molto goffo.
“Io sono Cain” Nel mentre arriva il mio treno, salgo e lo saluto con un cenno della mano.

Torno a casa, la notte passa agitata; la sera seguente lo incontro ancora, e la sera dopo anche , e quella dopo ancora, e così via per ben tre mesi.
Ormai io e Cain siamo diventati amici, io non faccio domande su di lui e di contro lui aiuta me con i rapporti interpersonali.
Finché una sera seguo il mio nuovo amico al poligono di tiro, vuole insegnarmi a sparare; quando prendo in mano quella Beretta automatica ne avverto il nero potere e la sensazione che provo ogni volta che parte un colpo è piacevole: sparare a quelle sagome di cartone pressato era la cosa che mi piaceva di più.

Ultimamete non sono il più il bravo ragazzo sottomesso che ero sempre stato, gli altri lo avvertono, l’artefice del mio cambiamento è il buon vecchio Cain, lui sacome tirar fuori il meglio di me.
Finché non arriva quel giorno. Il capo mi vuole parlare, quando vado da lui mi licenzia senza fare tanti complimenti. Non so che cosa mi ha preso in quel momento, mi avvento su di lui e lo strangolo, poi me ne vado dall’ufficio, come se nulla fosse successo.

Arrivo a casa e chiamo Cain, dopo poco lui arriva da me.
Capisce subito e mi porge la sua pistola, mentre lo fa mi dice “Lo scopo della vita non è forse morire?”.
Gli sorrido, ha il brutto vizio di ripetermi sempre quella frase, poi gli sparo, Cain barcolla e si lascia cadere a peso morto sul divano. Muore di li a poco, ma con uno strano sorriso da ebete stampato sul volto, vecchio diavolo…

Porto la pistola alla tempia destra, guardo la foto fatta il giorno della consegna del diploma: “Va fatto”

BANG!

2 comments:

Anonymous said...

Forte!
Falketta

Unknown said...

wow, grazie del commento :)